Un tempo, poco più di venticinque anni fa, al tramonto della Prima Repubblica, in via Santa Lucia s’incontravano uomini potenti quanto discreti, dal passo lieve ma dalla presa forte. Si chiamavano Amedeo Zampieri, Maurizio Creuso, Lamberto Toscani…: democristiani di rito doroteo, insuperati signori delle tessere, nati e cresciuti nella sacrestia di Antonio Bisaglia.
Nella toponomastica della Seconda Repubblica, via Santa Lucia è piombata nell’anonimato. Fino all’11 novembre scorso, nella notte di San Martino, l’ultima di Massimo Bitonci a Palazzo Moroni.
Quella notte al portone numero 24 bussarono Manuel Bianzale e Carlo Pasqualetto, consiglieri comunali con in tasca una traballante tessera forzista. Difronte al notaio, si racconta, con l’aria dei liberatori e la rassegnazione dei traditori, coprirono le ultime due caselle mancanti per ricacciare a Cittadella il primo cittadino.
Di notti buie e inevitabilmente tempestose Padova ne aveva vissute tante negli ultimi decenni. Quelle lunghe e cruente del terrorismo, intrise del fumo dei lacrimogeni e delle molotov, dell’odio e persino del sangue. Poi quelle di Tangentopoli, dove bastava un sospetto, un avviso, due manette, per far rotolare sul liston sindaci e giunte. Ma dietro a tutte quelle notti c’era una città con i suoi santuari e i suoi salotti, con i suoi leader e le sue banche. Certo, per lo più erano club chiusi e gelosi, diffidenti e scontrosi, ma inconsciamente legati ad un’idea di politica, di identità, di sviluppo. Persino di autonomia, nel contrastare l’invadenza veneziana e l’esuberanza veronese, nel coltivare quel modello di piccola Milano che la città si era appiccicata sul petto negli anni del boom e che continuava ad esibire con malcelato orgoglio.
Ma adesso, cacciato il sindaco straniero, da dove si riparte? Chi tira i fili del siparietto lacerato? Chi detta tempi, priorità e scelte capaci di spezzare l’incantesimo delle paure che sembra averla paralizzata. Chi c’è oggi in cabina di regia? Chi, per dirla dritto, comanda a Padova?
Politica. Tre sindaci, nessun copione
Adagio, quasi per inerzia, negli ultimi anni Padova ha cambiato pelle. Un mutamento antropologico che non ha risparmiato nessuna componente della società, e che si rispecchia plasticamente sul governo della città.
Spariti i partiti, la grande borghesia delle professioni, dell’industria e delle categorie tentò un ruolo di supplenza con Giustina Destro. Serviva fiato, esperienza, sguardo lungo e soprattutto pazienza, ma quando la sindaca trovò il passo e qualche schema, finì senza scampo nelle fauci del redivivo Zanonato. La sinistra interpretò quel risultato come l’apertura di un nuovo ciclo; la città come una rivincita della vecchia classe politica, e alla prima occasione spezzò il passaggio dinastico con Ivo Rossi, trovando in Massimo Bitonci il nuovo sceriffo.
Così tanto credette a quel ruolo, il “sindaco foresto”, da interpretare il dialogo come una debolezza, il governo come imposizione, che per una città come Padova è come scambiare una cristalleria in un saloon. Sorpreso e disarcionato nella notte di San Martino, invece di riflettere sull’equivoco l’ex primo cittadino gridò al complotto, dando a tutti appuntamento in primavera, quando, giura, risalirà lo scalone di Palazzo Moroni.
Economia. Un languido tramonto
Ma mentre il Palazzo strombazzava, la città languiva, costretta ad intaccare persino i pochi gioielli di famiglia. Perse da tempo le banche, arrivò poi il turno delle municipalizzate, la crisi della Fiera, un auditorium mai nato, un Centro Congressi avvelenato… E un fiume di buone intenzioni affogate nell’impotenza. La Zip, innanzitutto. Un vanto fino a ieri, uno dei poli nazionali ed europei della logistica con l’Interporto e i Magazzini, lasciata colpevolmente languire nel degrado, in capannoni svuotati dalla crisi, in un’ibrida e caotica commistione di commerciale e direzionale, in terra di conquista dei cinesi e in zona franca della prostituzione.
Ospedale: una storia da ricovero
A Flavio Zanonato e alla sua giunta piaceva ad Ovest, vicino allo stadio Euganeo. All’ex presidente della Provincia, Barbara Degani, a Sud, sull’aeroporto Allegri. Il centrodestra che sostenne la candidatura di Massimo Bitonci, era per tenerlo dov’è, nuovo su vecchio, sull’asse di via Giustiniani. Poi, repentinamente, il neo sindaco cambiò idea: meglio un più in la, verso Nord-Est, vicino ai campi sportivi del Cus. Anzi no, meglio ad Est, sull’uscio della “Porta di Padova”, come s’usava chiamarla un tempo quando la politica incrociava l’urbanistica.
Un gioco dei quattro cantoni, viziato dalla mancanza di prospettiva che confuse il mezzo con il fine, la logistica con il progetto, come il tema riguardasse il campanile di San Marco e non una grande azienda della salute: un luogo dove ricerca e cura rappresentano un binomio indissolubile per dare fiato, lustro e futuro alla grande scuola medica patavina.
Uno, due, tre… All’ultimo stadio
C’è ancora chi, passando oltre le quinte dell’ex foro boario, ritrova nell’Appiani frammenti di pomeriggi biancorossi di passione e di festa, e il ringhiare della tifoseria in un catino così avvolgente da intimidire gli ospiti ed esaltare i panzer. C’era, poi, chi sognava di concedergli un’altra chance; ipotesi presto scivolata nel fondo di un vecchio cassetto, come un vecchio album di famiglia sgualcito dal tempo e roso dall’umidità.
Per tornare grandi, poi si disse, sarebbe bastato l’Euganeo, inaugurato anzitempo nel vicino Due Palazzi. Sarà che certi debutti segnano un destino, e che per riempire gli spalti serve almeno un pretesto; sarà per il vecchio detto “non c’è due senza tre”; sarà, più semplicemente, per la voglia di stupire, ma la decisione di Bitonci di aggiungere all’elenco anche l’impianto di rugby del Plebiscito, ha spiazzato la città e offerto un ulteriore pretesto ai consiglieri di maggioranza intenzionati a fissare un appuntamento liberatorio con il notaio.
E intanto la città si svuota
Pochi ne parlano e ancor meno se ne preoccupano, ma la crisi sta svuotando Padova. Da alcuni anni la città perde circa mille abitanti all’anno. Un trend che la porterà presto sotto i 200mila abitanti. Nonostante gli immigrati. Senza di loro, quartieri come San Carlo, Guizza, Pescarotto sarebbero mezzi vuoti.
E non è tutto. Sugli attuali 210mila abitanti, i nati a Padova sono 135mila. La zona industriale è passata in pochi anni da 18mila a qualche migliaio, in gran parte cinesi.
Davvero, con questi numeri, il nemico è lo straniero? O non sapendo leggere la propria crisi interna, la si proietta fuori?
Sei mesi per tentare la strambata
Comune, Fondazione Cassa di Risparmio, Camera di Commercio: queste i tre assi – quattro, se si volesse con una certa indulgenza aggiungere la Provincia – che Padova potrà giocarsi nei prossimi mesi.
Sul Comune la partita l’ha già riassunta il sindaco dimissionato: Bitonci contro il resto del mondo. O meglio: il candidato leghista contro una grande coalizione che rispecchi le forze che l’hanno mandato a casa: Pd, centristi, civici e almeno una parte di Forza Italia. Operazione difficile, complessa, delicata, ma in tema di alleanze Padova ha sempre mostrato ampia autonomia dagli schemi nazionali, sperimentando formule ardite, come le prime giunte Zanonato, nate in piena Tangentopoli dall’incontro tra Dc e Ds.
La Fondazione Cassa di Risparmio, poi. Nel 2017 si chiude un’epoca: quella di Antonio Finotti. Segretario generale dal 1997, presidente dal 2003, non è più rinnovabile. Felpato, discreto, abile, inossidabile al tempo e impermeabile alle polemiche, Finotti ha attraversato le stanze del potere della Prima e della Seconda Repubblica con il distacco di chi fa un altro mestiere.
Ma la scadenza che si annuncia a Palazzo del Monte di Pietà potrebbe essere non un semplice, seppur “storico”, cambio di guardia.
Proprio in questi giorni, presentando ai sindaci padovani un “bottino” di circa cento milioni di euro, frutto della vendita di partecipazioni in enti ritenuti non strategici, il presidente della Camera di Commercio, Fernando Zilio, ha invitato la Fondazione a duplicare la cifra, confidando che Padova, come recentemente ha fatto Venezia, Firenze, Torino, Napoli, possa firmare un patto con il governo nazionale, e così poter attingere ai finanziamenti europei.
Ma allora, chi comanda a Padova?
E’ possibile che la Padova delle separatezze, che mondi ieri solisti ma pur con una trama, un disegno, un’ambizione, e oggi spenti, collassati dalla crisi, possano trovare una così impegnativa regia? Su questo interrogativo si disegnerà la mappa del nuovo potere a Padova. Perché quella che propone questo 2016 che sta tirando le cuoia è solo un cumolo di buone intenzioni, o, ad essere ottimisti, un cantiere senza capomastri. Una città – qualcuno l’ha notato? – dove sono sparite non solo le cicogne ma anche le gru. Magari brutte da vedere, ma spia di una città che progetta, cambia, cresce.
No, a comandare a Padova oggi è la crisi. E non di rado, la disperazione.
Confidando che domani sia un altro giorno.
Francesco Cassandro
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