di Francesco Cassandro
Settimana di Passione, quella che inizia oggi. Come quelle che ci hanno preceduto, verrebbe da aggiungere, aggrappandoci alla speranza che tutto finisca in una Pasqua di Resurrezione e di Salute. Il calendario della fede e quello dei virologi sembrano coincidere, e il silenzio che stringe in questi giorni i nostri cuori e le nostre città appare nel breve una terapia efficace. Poi, sappiamo, servirà di più, molto di più. La scienza dovrà scoprire nuove terapie, l’uomo ritrovare respiri ed abbracci che aveva scordato, imboccare strade mai battute.
Per chi cerca una nuova toponomastica della vita, padre Ermes Ronchi, frate dell’Ordine dei Servi di Santa Maria, marca con parole nuove i sentieri della Galilea, ripulisce dalle incrostazioni della paura il messaggio del Vangelo, cementa in un inno all’Amore la storia del creato e dell’uomo.
Un viaggio che parte da lontano, padre Emes. Esattamente da Racchiuso di Attimis, un borgo in provincia di Udine.
Sì, un paese di collina, pieno di viti e di castagni, di agricoltura e, allora, di emigrazione.
Cosa le è rimasto dentro?
Oh, i ricordi sono tanti e vividi. Innanzitutto, la rettitudine di mio padre: un uomo integro, che viveva veramente con profondità. E poi certamente la fede. La fede che avvolgeva, penetrava tutti gli aspetti della vita. Era dovunque. Dal segno di croce sulla polenta al Venerdì Santo, quando non si poteva lavorare la terra, ferirla con vanghe o zappe, ma rispettarla in silenzio, perché in quel giorno aveva bevuto il sangue del Signore.
Poi?
Quello che mi commuove ancora è il ricordo del rito che ogni sera accompagnava gli animali all’abbeverata: gli uomini che portavano le grandi mucche – enormi mucche che a me sembrava elefanti – ed io, bambino, che conducevo i vitellini. Ne vado ancora fiero!
Quando arrivò la chiamata?
C’era un fraticello di Madonna delle Grazie di Udine che veniva in paese per raccogliere la legna per il convento, e noi ragazzi andavamo volentieri ad aiutarlo. La sera, seduti sul carro, si tornava a casa, e il fraticello chiedeva ad ognuno di noi quale lavoro volesse fare da grande. C’era chi diceva il maestro, ed era il massimo, chi il guidatore dei treni, chi il pompiere…
E lei?
Io quella sera ero l’ultimo della fila, e mentre i miei compagni parlavano capii che quel fraticello voleva un’altra risposta. Era vecchietto, stanco, fragile, … e mi fece una pena infinita. «Voglio farlo contento», dissi tra me e me. E quando arrivò il mio turno, risposi: «Voglio farmi frate come te».
Come si chiamava?
Fra Valentino. Quando celebrai il suo funerale, gli dissi. «Guarda Valentino, io ho cercato di farti contento quel giorno, ma ti ringrazio perché tu mi hai fatto contento per tutta la vita».
Così partì per il seminario.
Sì, a Follina, in provincia di Treviso. Ma non è finita lì, perché quell’impegno era legato ad un senso di empatia, di pietas verso una persona.Poi arrivò una seconda vocazione.
La ricorda?
In ogni dettaglio. Avevo vent’anni, era un pomeriggio d’agosto e stavo rastrellando il fieno sulla collina quando ebbi improvvisamente la certezza, chiara, assoluta, che la mia vita avrebbe avuto pienezza soltanto buttandomi nel Vangelo.
In questo viaggio spirituale ha incontrato grandi maestri. A cominciare da padre Giovanni Vannucci.
Padre Vannucci mi ha convertito, mi ha dipinto un’altra immagine di Dio.
Quale?
Quella di un Dio bello, solare, positivo. «Il Vangelo – mi disse – non è una morale ma una sconvolgente liberazione». Al liceo tenne un corso di esercizi spirituali, e ricordo come si incise dentro la sua interpretazione della parabola della zizzania e del buon grano. «L’esame di coscienza vero – disse – è sul buon grano che c’è in noi, non sulla zizzania. Dovete venerare le forze di vita in voi».
Non bastasse, poi incrociò padre David Maria Turoldo.
Turoldo trasmetteva una insurrezione di libertà; libero e fedele al tempo stesso. Libero da tutto ciò che era secondario, effimero, tradizione vuota, cascame culturale, fedele al Vangelo, alla Parola di Dio, alla croce. Lui chiamava Dio “fonte di libere vite”. Mamma mia, Turoldo mi ha scaldato il cuore.
Tanto da scegliere come magistero l’annuncio della Parola: scrivere, raccontare, “tradurre” il Vangelo nel linguaggio di oggi. È complicato?
Non complicato, creativo. Cerco di non dire mai parole, frasi, pensieri che non mi abbiano convinto, che non mi abbiano ferito, che non mi abbiano fatto in qualche modo soffrire. Perché se non hanno fatto qualcosa in me, non sono veri e non faranno niente a nessuno.
Arriviamo, padre Ermes, a questa Pasqua 2020. «Dio non lasciarci nella tempesta», ha implorato papa Francesco il 27 marzo scorso, in una Piazza San Pietro vuota, irreale, livida.
Gesù, racconta il vangelo, è intervenuto a placare la tempesta dopo che i discepoli avevano remato per tre ore, dopo che avevano messo tutta la loro capacità, intelligenza, energia e competenza di marinai di quel lago.
Questo cosa ci dice?
Che Dio non interviene al primo morso della paura, al primo artiglio del dolore, ma dopo una lunga notte di coraggio e di lotta.
Quando albeggia?
Sì. La notte finisce, e il Signore viene, porta la sua salvezza. Vorrei usare per questo tempo un’espressione di Bonhoeffer, che mi ha illuminato: “Dio non salva dalla tempesta ma nella tempesta, non protegge dalla prova ma nella prova, non libera dal dolore ma nel dolore. Perché non ha salvato Gesù dalla croce, ma nella croce”.
Basta un cambio di preposizione?
Sì, con un semplice cambio di preposizione, cambia tutto. Dio è lì, nella tempesta, è già lì, nella forza dei rematori, è già nella mano forte di chi tiene il timone, è già negli occhi della sentinella che guarda quanto manca alla riva. Dio intreccia la sua forza con la mia, intreccia il respiro con il mio, coinvolge la sua vita con la mia. Ecco, questa è la speranza.
“Nessuno si salva da solo”, ha aggiunto papa Francesco. Fin dove ci siamo spinti?
Questo è il problema: l’esserci isolati in una solitudine nemica, pensando di salvarci ciascuno da solo, ogni famiglia per conto suo, ogni Stato per conto suo, l’umanità per conto suo senza il coinvolgimento di madre terra.
Invece?
Invece siamo tutti insieme su un’unica barca. E non ce n’è una di ricambio. Però io penso: non importa quanto sono andato lontano.
Ci siamo allontanati da Dio?
Ma lui non si è allontanato. Le chiese sono vuote, chiuse, ma il suo abbraccio è aperto. Se tu lo perdi, lui non ti perde. Non potrai mai andare così lontano che cadere fuori dal suo abbraccio.Invece ci siamo allontanati dalle persone, dalle creature tutte, da madre terra. «Ci siamo illusi – ci ha ricordato papa Francesco – di vivere noi sani dentro un mondo malato». Gandhi diceva “il mio prossimo è tutto ciò che vive”,
Cosa significa?
Che “ama il prossimo tuo” diventa ama la terra, l’acqua, l’aria, il creato come li ama Dio. Da questo ci siamo allontanati.
Allora, padre Ermes: che Pasqua è questa?
La Pasqua dei fragili. Perché io sono così fragile da avere sempre bisogno di qualcuno. C’è un’immagine di Leonardo da Vinci sulla fragilità che mi piace tanto. Il semiarco, osservò, è la forma architettonica più fragile che esista. Da solo non ce la fa a stare in piedi, ma se appoggiamo due semiarchi uno all’altro, si forma l’arco che diventa la forma architettonica più potente che esista, che sorregge il massimo peso. Allora noi in questo momento appoggiando una fragilità all’altra, possiamo sostenere il mondo. La primavera è fragile ma indomita, non si lascia sgomentare da nessun inverno.
Ma ci arriviamo a questa Pasqua con tanti, troppi lividi, troppo lutti, troppe paure.
Sì, è vero: sarà una Pasqua di molti crocifissi. Ma senza la croce la Pasqua è vuota, perché non c’è sostanza, è solo una illusione dell’eterno ritorno della vita, delle stagioni. Però anche la croce senza la Pasqua è cieca, perché non ha orizzonte, non ha un traguardo.
Come possiamo concludere, padre Ermes?
La Pasqua rappresenta la certezza che non va perduto nessun gesto d’amore, non va perduta nessuna generosa fatica, non va perduta nessuna dolorosa pazienza: tutto questo circola nelle vene del mondo come una energia di vita. Qualcosa ha già penetrato la trama segreta della storia: la Pasqua di Cristo.
(da “Il Giornale di Vicenza” – lunedì 6 aprile 2020)
CHI E’
Ermes Ronchi è nato nel 1947 a Racchiuso di Attimis, in provincia di Udine. Sacerdote dell’Ordine dei Servi di Santa Maria, ha compiuto gli studi filosofici e teologici alla Pontificia facoltà teologica Marianum di Roma; ha conseguito il dottorato in scienze religiose a Parigi, all’Institut Catholique e in antropologia culturale alla Sorbona.
È docente di Estetica Teologica ed Iconografia alla Pontificia facoltà teologica “Marianum” di Roma. Nel 2016, su incarico di papa Francesco, ha tenuto le meditazioni degli esercizi spirituali alla Curia romana.
Dal 2016 vive nel convento di Santa Maria del Cengio, a Isola Vicentina, piccola comunità dei Servi di Maria, che da tempo ha avviato, grazie all’apporto fondamentale di un gruppo di laici, attività che fanno crescere la spiritualità e favoriscono la riflessione su temi di attualità, tra i quali l’esigenza di diffondere nuovi stili di vita nel rispetto del Creato.
È autore di numerosi libri su temi biblici e spirituali; collabora inoltre con diverse testate giornalistiche, tra cui l’Avvenire.