Claudio Scimone

La “bacchetta magica” che inventò i Solisti Veneti

di FRANCESCO CASSANDRO

Padova. Di qua le cupole del Santo, sospese tra i tetti ed il cielo; di là, a tagliare dolorosamente l’orizzonte, il Monoblocco e il Policlinico. In mezzo, a sgomitare tra fede e scienza, Piazza Ponte- corvo, con al centro l’omonima e splendida porta cinquecentesca, uscita indenne dalle intemperie della storia ma declassata a spartitraffico dai geometri della viabilità.

In questo crocevia precario e pur suggestivo, da oltre ottant’anni vive Claudio Scimone: un airone pallido e leggero, nato per volteggiare con le sue lunghe ed esili ali su spartiti e palcoscenici, ammagliando con la sua bacchetta i musici, stregando con il suo sorriso gli spettatori.

Un predestinato, verrebbe voglia di dire. Uno tosto, invece. Che il papà, primario medico, sognava con un camice bianco, e che invece indugiò su Filosofia e poi scelse Giurisprudenza, affascinato dalla toga dell’amico di famiglia Alberto Trabucchi, per scendere poi all’ultimo gradino prima della laurea, incalzato da quella passione che gli cresceva dentro; turbato da quel seme che la madre, appassionata del grande Toscanini, inconsciamente depositava all’ultima nota dei tanti concerti vissuti insieme. «Quanto mi piacerebbe che tu diventassi un direttore d’orchestra», le sussurrava, «ignara – ricorda Scimone – di quali fossero i problemi di una carriera del genere».

Ed invece, maestro?

Invece ho cominciato a studiare pianoforte a Milano, diplomandomi con Carlo Vidusso; poi composizione con il vicentino Arrigo Pedrullo, il primo direttore dell’Orchestra della Rai di Torino. Ma a Padova non c’erano orchestre.

E allora?

Allora decisi di farne una mia. A metà degli anni Cinquanta cominciai a mettere insieme un gruppo di musicisti giovani, più qualche anziano. All’epoca i conservatori erano vuoti, e gli orchestrali, soprattutto per strumenti ad arco, erano rarissimi.

Risorse?

Zero. Qualche soldo lo mise la mia famiglia, e i ragazzi lavoravano per pochissimo.

Partenza in salita, dunque.

Sì, fu un inizio di grande sacrificio. Lavoravamo come matti, e prima di ogni concerto facevamo decine di prove; tutte a casa mia, perché non avevamo una sede.

Quando il debutto?

Il 26 ottobre 1959, all’Olimpico di Vicenza, ad un congresso di oculisti. In sala c’erano sedici persone, ed il teatro era pure freddo. Ero tornato da poco da una lunga estate trascorsa con un mio maestro Dimitri Mitropoulos a Salisburgo e a Vienna.

Perché Solisti Veneti?

Beh, perché eravamo nel Veneto. E poi, direi soprattutto, perché volevamo rivivere il vero spirito della musica veneta, soprattutto della sua scuola d’archi.

Era stata dimenticata?

Veniva eseguita in un modo rigido, stilizzato, come fosse una musica vecchia. A me sembrava impossibile che il Vivaldi che ascoltavo appartenesse ad una Venezia così ricca di grandi capolavori d’arte, della fantasia del Tiepolo, del Tintoretto, del Tiziano…

Qualcosa non tornava, insomma.

Esattamente. Vivaldi viveva tra gli splendori della Serenissima, e la sua musica non poteva avere il respiro di una marcetta. Così abbiamo cercato di riscoprire lo straordinario virtuosismo di una mu- sica che interpretava un’epoca basata sulla sorpresa, sulla scoperta, sui contrasti.

Un’operazione criticata, allora.

Ancora adesso, veramente. Gli interpreti sono sempre dei formalisti, che si basano sulla costruzione degli strumenti. Vivaldi scriveva con la massima elasticità e fantasia, buttava giù composizioni diverse, usava i mezzi che aveva, che cambiavano a seconda delle corti, dei luoghi…

Quando capì che la strada intrapresa era quella giusta?

Nella nostra prima tournée, organizzata dagli Istituti italiani di cultura all’estero. Ad Amburgo, Bruxelles e Parigi registrammo un incredibile successo di pubblico e di critica.

Prima all’estero che in Italia?

All’inizio sì. In Italia il successo – una parola che non mi piace – arrivò all’inizio degli anni Settanta, quando un giovane geniale, responsabile della produzione della Curci, la società che allora distribuiva i nostri dischi, ebbe l’idea di lanciare i “Solisti Veneti televisivi”.

Vi portò, in altre parole, in televisione?

Diciamo così. Prese lo spunto da un originale test compiuto da una radio parigina, che per valutare le proprie capacità di influenzare il pubblico, trasmise un nostro disco sette-otto volte al giorno per una decina di giorni.

E che successe?

Il disco vendette un milione di copie.

In Italia, invece?

L’impatto con il grande pubblico televisivo ebbe effetti straordinari. Una nostra interpretazione di un concerto di Vivaldi si aggiudicò il Festivalbar del 1970, e l’idea di Vittorio Salvetti di inserirlo nei juke-box, registrò 350 mila “gettonature”. Questo ci procurò una promozione enorme, e milioni di persone letteralmente scoprirono la musica classica.

Una scoperta che resiste ancor oggi?

Certamente, rispetto a ieri, la musica classica è molto più favorita, anche se gli investimenti maggiori sono rivolti più ai musei, alle mostre, alle esposizioni, che alla musica.

Se tra mille successi e ricordi dovesse selezionarne due, quali citerebbe?

Tra le mie scoperte operistiche, senz’altro l’Orlando Furioso di Vivaldi; nella direzione d’orchestra, il Barbiere di Siviglia all’Arena di Verona.

Per lei cos’è la musica?

È un mezzo di comunicazione assoluto, che non conosce confini né di lingua né di razza. Il più alto sistema educativo, perché insegna con la gioia una disciplina perfetta.

In che senso?

Perché sviluppa in pari modo i due emisferi celebrali, ed impone una disciplina mentale e fisica molto stretta. Tant’è che nei conservatori la droga non si conosce, o comunque è rarissima.

Qual è il ruolo del direttore d’orchestra?

Quello che vuole assumere, perché certo non è una specie univoca e ha provenienze tra le più varie: chi dagli strumenti, chi dal canto, chi non ha mai praticato la musica. Nel passato ci sono stati per- sino direttori d’orchestra che dirigevano perfettamente senza saper leggere la musica.

Lei che versione preferisce?

Il direttore d’orchestra è una specie di profeta, capace di comunicare un messaggio a chi suona, affinché lo realizzi. Deve farsi rispettare, conoscere bene la partitura e la tecnica.

Quanto incide nell’orchestra?

L’orchestra cambia il suono da un direttore all’altro già dal primo colpo di bacchetta. Che può essere nulla, se il direttore è soltanto uno che batte il tempo, come ce ne sono tanti; meno di nulla, se il direttore non sa neanche battere il tempo; un suono ricco di espressione, se il direttore ha in sé qualche cosa di vivo da trasmettere.

Si sente un privilegiato?

Dirigere un’orchestra è una via molto difficile, perché in un mondo come il nostro, dominato dai media e dalla politica, non tutto dipende dal rapporto che c’è tra il musicista e il pubblico, o tra il musicista e il direttore d’orchestra, o tra i musicisti.

Quindi?

La fortuna è stata di avere la costanza di lottare per avere una mia orchestra e avere i musicisti migliori.

E magari avere una famiglia, una moglie musicista…

Quella è la massima fortuna sotto tutti i punti di vista. Mia moglie Caterine suonava il flauto. L’ho incontrata quand’ero in conservatorio a Milano, e quando ci siamo sposati io avevo trent’anni e lei venticinque.

Quale futuro immagina per i Solisti Veneti?

In Italia oggi è meglio non immaginarsi il futuro. Meglio lottare…

Cosa teme?

Non vedo un futuro roseo per la nostra civiltà. C’è anche il fatto che il mio futuro personale non ha un grande orizzonte… Ma non è neanche questo il fatto…

Qual è allora?

Quand’ero giovane ho letto “Il tramonto dell’Occidente”, un libro che mi ha profondamente segnato. L’autore, Oswald Spengler, nel disegnare il destino delle varie civiltà, coglieva impressionanti analogie tra il tracollo dell’Impero Romano e la nostra civiltà occidentale.

Teme che neppure la musica si salverà?

No, la musica può essere fatta in qualsiasi modo, con qualsiasi tipo di strumento, con qualsiasi tipo di civiltà. Si salverà, e se sapremo coglierne il messaggio, ci salverà.

(Padova, 12 giugno 2017)

CHI E’

Claudio Scimone (Padova, 1934) ha fondato nel 1959 l’orchestra da camera “I Solisti Veneti”, con i quali ha tenuto oltre seimila concerti in tutti i continenti, partecipando a importanti festival internazionali e dirigendo le più importanti orchestre del mondo. Tra i premi più rilevanti vi sono i tre “Grand Prix du Disque”, il Grammy Award di Los Angeles e il titolo di “Cavaliere di Gran Croce, Ordine al merito” con la medaglia d’oro al merito per l’arte e la cultura da parte del Presidente della Repubblica Italiana nel 2000.