Giuseppe Covre, “Bepi l’Eretico”, se n’è andato il 24 marzo scorso, ad un soffio dal traguardo dei settant’anni. L’ho incrociato la prima volta nel 1993, da cronista di quel Gazzettino che il suo direttore Giorgio Lago aveva lanciato a briglia sciolta a sostegno del Movimento dei sindaci del Nordest. Era un uomo dritto, sincero, appassionato e soprattutto libero. Una rarità e una risorsa. Imprenditore, sindaco di Oderzo dal 1993, deputato nel 1996 al 2001 per la Lega Nord, nel 2004 ha pubblicato la sua biografia, dal titolo “Sono un veneto. Storia di un leghista eretico”. L’ho ritrovato nell’ottobre del 2016, quando mi rilasciò un’intervista per “Il Giornale di Vicenza”. Per non dimenticare.preziosa.
S’innamorò di un’idea, tanti, forse troppi anni fa, Giuseppe Covre, Bepi l’Eretico. Più̀ di trenta, a spanne. S’innamorò di un sogno, il federalismo, uscito all’imbrunire della Prima Repubblica, al crepuscolo dei partiti, nella notte di Tangentopoli.
Lo incontrò, il federalismo, tra le secche del Piave e le sinuosità della Pedemontana. All’inizio fu un’intuizione, poi un’ipotesi, infine un partito. Liga & Lega, Leone & Carroccio, passione & rabbia, Roma ladrona & celodurismo: immagini e colonna sonora del reality della politica nostrana.
Per inseguire e difendere quel sogno, Bepi l’Eretico (copyright Giorgio Lago) non ha fatto sconti. A Umberto Bossi spense il toscano e il sorriso con un perentorio: “Con il secessionismo non vai da nessuna parte”. A Matteo Salvini non perdonò la scivolata lepenista, macchiata da un’ideologia “che non ha niente a che fare con la nostra storia”.
E giacché non c’è due senza tre, rieccolo a sfidare il fuoco amico in difesa delle sindache di Oderzo e Motta di Livenza, ree, agli occhi dei duri e puri, di aver siglato due unioni civili. «Per un cattolico come il sottoscritto, praticante – ha chiosato -, il matrimonio è religioso o civile, fatto in municipio, eterosessuale. Solo quello si può e di deve chiamare matrimonio. Quello fatto dalle sindache è un’unione civile, che è un’altra cosa».
Se poi aggiungiamo, Giuseppe Covre, il suo sì al
referendum costituzionale voluto da Matteo Renzi…
Cosa succede?
Dica lei.
Dico semplicemente che siamo in ritardo di trent’anni, che la riforma è indispensabile e che vanno evitate le vendette trasversali.
In che senso?
Che c’è una parte del centrodestra che vuole ripagare il centrosinistra con la stessa moneta usata nel 2006 per fermare la devolution. Se prevale lo scontro ideologico, se andiamo avanti con queste contrapposizioni – io boccio la tua e tu boccerai la mia, come si sta facendo – la costituzione non sarà mai modificata.
Invece?
Invece ci si convinca che il sì alla riforma del centrosinistra crea le condizioni affinché́ domani il centrodestra possa migliorarla.
Sembra un atto di fede.
No, si chiama pragmatismo. Figlio della mia cultura, della mia esperienza di amministratore pubblico e di imprenditore.
Iniziata dove?
In una famiglia contadina, patriarcale, cattolicissima e numerosa. Mio nonno, emigrato in Brasile a fine Ottocento, era rientrato in Italia giusto per andare in guerra.
E lei?
Io ho fatto le medie, la ragioneria e poi mi sono scritto all’università. Che dovetti interrompere per la mancanza di risorse e soprattutto per la paura di mio padre per i comunisti.
Dei comunisti?
«Vogliono portarci via la terra», diceva. Per lui c’era il lavoro e basta. E considerava la politica una perdita di tempo.
Questo l’ha condizionato?
No. Mio padre è morto nel 1983, quando avevo trentatré anni ed ero sposato con figli. E soprattutto, mi ero già invaghito dell’idea federalista.
Invaghito?
Sì, invaghito da un’idea che continuo ad avere: che solo il federalismo può risolvere i problemi del nostro Paese. Ma non volevo fare politica.
Chi la tirò per i capelli?
Franco Rocchetta. In un Comune vicino al mio, Motta di Livenza, si andava al voto, e non aveva nessuno da candidare. Così diventai per puro caso il primo consigliere comunale della Liga Veneta.
Era solo l’inizio…
Sì. Tre anni dopo la scena di ripeté per Oderzo, dove mi costrinsero a candidarmi alla carica di sindaco. Venni eletto non per meriti personali ma perché́ la gente aveva voglia di cambiare e spirava forte il vento della Lega.
Diventando uno dei leader del Movimento dei sindaci.
L’idea nacque l’8 settembre 1985 – una data che non dimenticherò̀ mai – a cena con il direttore del Gazzettino Giorgio Lago. Era un venerdì̀. Due giorni dopo Lago pubblicò il suo famoso editoriale “O i sindaci o nessuno”, che fece partire il movimento.
Guidato dall’inedito duo Cacciari-Covre, un ardito
connubio rosso- verde.
Fu Lago a mettermi in contatto con il sindaco di Venezia. Andai a trovarlo
a Ca’ Farsetti e cominciammo a scrivere quelle proposte che poi entreranno nei
Decreti Bassanini. Lo riconoscerà più̀ tardi lo stesso ministro della Funzione
pubblica del governo Prodi durante una visita a Venezia. «Io ho fatto quello
che il sindaco Covre mi aveva chiesto», disse Bassanini.
Ebbe problemi con la Lega?
Ero stato autorizzato da Comencini e da Gobbo. Bossi invece mi contrastò subito. Aveva paura che venissi fagocitato da Cacciari. «Tu non conterai niente, vedrai – mi disse -. Cacciari ne approfitterà per fare un suo partito di sinistra».
Cosa rispose?
«Con Cacciari ho parlato molto chiaro, ed è una persona assolutamente onesta. Vogliamo semplicemente fare delle proposte per poter lavorare meglio». Anche Cacciari, peraltro, ebbe i suoi problemi con il segretario D’Alema.
Fu comunque un successo.
Sì. Il Movimento conquistò un consenso altissimo e trasversale, senza ideologie, composto da sindaci eletti per la prima volta dai cittadini, e per questo con una legittimazione forte e una sensibilità particolare. Avvertimmo il bisogno di dare risposte ad un territorio in espansione, ma anche con problemi nuovi, come la cementificazione e l’immigrazione.
Poco tempo dopo, eletto deputato, ebbe l’opportunità
di presentare direttamente la lista della spesa.
La candidatura mi fu chiesta da Gobbo e Gozzo. «E’ un ordine!», tagliarono
corto di fronte alle mie perplessità.
Risultato?
A Roma non gliene importava nulla dei nostri problemi. Per me l’esperienza parlamentare è stata una delusione cocente. Tanto che rifiutai la riconferma. Era molto più soddisfacente fare il sindaco: metter un palo della luce, asfaltare una strada…
Si arrese?
No, continuai la mia battaglia. A cominciare da quel “basta capannoni” che metteva l’accento sull’insostenibilità del nostro modello e sulla necessità di modificare la legge regionale. Nei 98 Comuni della provincia di Treviso si contavano 100 aree produttive. Una cosa immaginabile! Eravamo fuori giri.
Oggi la Lega sembra aver dimenticato il federalismo.
Salvini ha sicuramente dei meriti. Soprattutto sull’immigrazione, perché così non si può andare avanti. Però la scelta lepenista, questa virata a destra, non mi convince, non appartiene alla nostra storia. Io sono entrato nella Liga quasi trent’anni fa perché escludeva le ideologie e aveva un’unica idea: il federalismo. Che non è un’ideologia.
Ha pagato per quel “no” al secessionismo?
No, onestamente no. Bossi alla fine riconobbe la mia onestà intellettuale e il fatto che non facevo le mie opposizioni alla successione per motivi ideologici. E neppure per potere.
Quella di Tosi è stata invece una rottura di potere?
Tosi si è mangiato una grande opportunità, perché́ l’amico Flavio – io continuo a chiamarlo l’amico Flavio – aveva e ha grandi capacità politiche, ma si è messo in testa di realizzare un progetto molto più grande di lui. Ma soprattutto ha sbagliato a candidarsi a governatore del Veneto.
Come vede il futuro del Veneto.
Bene, fino a quando sarà governato da Zaia. Perché Luca ha le caratteristiche e le idee giuste per i veneti.
Adeguate persino a guidare il centrodestra alle elezioni nazionali?
Assolutamente sì. È pragmatico, ha la visione e la stoffa. Anche se mi risulta che non abbia, a ragione, nessuna voglia di candidarsi.
Nell’eventualità accettasse, chi vedrebbe a Palazzo Balbi?
Ce ne sono tanti, ma i candidati vengono fuori alla bisogna.
Lei quale spazio si ricava?
Io ho fatto l’amministratore pubblico per caso, cercando di dare il massimo delle mie capacità, ma sempre mettendo un limite temporale: da qua a qua.
Quindi?
Siccome credo nel ricambio democratico a tutti i livelli, non farò mai più politica.
(Oderzo, 24 ottobre 2016)
S’innamorò di un’idea, tanti, forse troppi anni fa, Giuseppe Covre, Bepi l’Eretico. Più̀ di trenta, a spanne. S’innamorò di un sogno, il federalismo, uscito all’imbrunire della Prima Repubblica, al crepuscolo dei partiti, nella notte di Tangentopoli.
Lo incontrò, il federalismo, tra le secche del Piave e le sinuosità della Pedemontana. All’inizio fu un’intuizione, poi un’ipotesi, infine un partito. Liga & Lega, Leone & Carroccio, passione & rabbia, Roma ladrona & celodurismo: immagini e colonna sonora del reality della politica nostrana.
Per inseguire e difendere quel sogno, Bepi l’Eretico (copyright Giorgio Lago) non ha fatto sconti. A Umberto Bossi spense il toscano e il sorriso con un perentorio: “Con il secessionismo non vai da nessuna parte”. A Matteo Salvini non perdonò la scivolata lepenista, macchiata da un’ideologia “che non ha niente a che fare con la nostra storia”.
E giacché non c’è due senza tre, rieccolo a sfidare il fuoco amico in difesa delle sindache di Oderzo e Motta di Livenza, ree, agli occhi dei duri e puri, di aver siglato due unioni civili. «Per un cattolico come il sottoscritto, praticante – ha chiosato -, il matrimonio è religioso o civile, fatto in municipio, eterosessuale. Solo quello si può e di deve chiamare matrimonio. Quello fatto dalle sindache è un’unione civile, che è un’altra cosa».
Se poi aggiungiamo, Giuseppe Covre, il suo sì al
referendum costituzionale voluto da Matteo Renzi…
Cosa succede?
Dica lei.
Dico semplicemente che siamo in ritardo di trent’anni, che la riforma è indispensabile e che vanno evitate le vendette trasversali.
In che senso?
Che c’è una parte del centrodestra che vuole ripagare il centrosinistra con la stessa moneta usata nel 2006 per fermare la devolution. Se prevale lo scontro ideologico, se andiamo avanti con queste contrapposizioni – io boccio la tua e tu boccerai la mia, come si sta facendo – la costituzione non sarà mai modificata.
Invece?
Invece ci si convinca che il sì alla riforma del centrosinistra crea le condizioni affinché́ domani il centrodestra possa migliorarla.
Sembra un atto di fede.
No, si chiama pragmatismo. Figlio della mia cultura, della mia esperienza di amministratore pubblico e di imprenditore.
Iniziata dove?
In una famiglia contadina, patriarcale, cattolicissima e numerosa. Mio nonno, emigrato in Brasile a fine Ottocento, era rientrato in Italia giusto per andare in guerra.
E lei?
Io ho fatto le medie, la ragioneria e poi mi sono scritto all’università. Che dovetti interrompere per la mancanza di risorse e soprattutto per la paura di mio padre per i comunisti.
Dei comunisti?
«Vogliono portarci via la terra», diceva. Per lui c’era il lavoro e basta. E considerava la politica una perdita di tempo.
Questo l’ha condizionato?
No. Mio padre è morto nel 1983, quando avevo trentatré anni ed ero sposato con figli. E soprattutto, mi ero già invaghito dell’idea federalista.
Invaghito?
Sì, invaghito da un’idea che continuo ad avere: che solo il federalismo può risolvere i problemi del nostro Paese. Ma non volevo fare politica.
Chi la tirò per i capelli?
Franco Rocchetta. In un Comune vicino al mio, Motta di Livenza, si andava al voto, e non aveva nessuno da candidare. Così diventai per puro caso il primo consigliere comunale della Liga Veneta.
Era solo l’inizio…
Sì. Tre anni dopo la scena di ripeté per Oderzo, dove mi costrinsero a candidarmi alla carica di sindaco. Venni eletto non per meriti personali ma perché́ la gente aveva voglia di cambiare e spirava forte il vento della Lega.
Diventando uno dei leader del Movimento dei sindaci.
L’idea nacque l’8 settembre 1985 – una data che non dimenticherò̀ mai – a cena con il direttore del Gazzettino Giorgio Lago. Era un venerdì̀. Due giorni dopo Lago pubblicò il suo famoso editoriale “O i sindaci o nessuno”, che fece partire il movimento.
Guidato dall’inedito duo Cacciari-Covre, un ardito
connubio rosso- verde.
Fu Lago a mettermi in contatto con il sindaco di Venezia. Andai a trovarlo
a Ca’ Farsetti e cominciammo a scrivere quelle proposte che poi entreranno nei
Decreti Bassanini. Lo riconoscerà più̀ tardi lo stesso ministro della Funzione
pubblica del governo Prodi durante una visita a Venezia. «Io ho fatto quello
che il sindaco Covre mi aveva chiesto», disse Bassanini.
Ebbe problemi con la Lega?
Ero stato autorizzato da Comencini e da Gobbo. Bossi invece mi contrastò subito. Aveva paura che venissi fagocitato da Cacciari. «Tu non conterai niente, vedrai – mi disse -. Cacciari ne approfitterà per fare un suo partito di sinistra».
Cosa rispose?
«Con Cacciari ho parlato molto chiaro, ed è una persona assolutamente onesta. Vogliamo semplicemente fare delle proposte per poter lavorare meglio». Anche Cacciari, peraltro, ebbe i suoi problemi con il segretario D’Alema.
Fu comunque un successo.
Sì. Il Movimento conquistò un consenso altissimo e trasversale, senza ideologie, composto da sindaci eletti per la prima volta dai cittadini, e per questo con una legittimazione forte e una sensibilità particolare. Avvertimmo il bisogno di dare risposte ad un territorio in espansione, ma anche con problemi nuovi, come la cementificazione e l’immigrazione.
Poco tempo dopo, eletto deputato, ebbe l’opportunità
di presentare direttamente la lista della spesa.
La candidatura mi fu chiesta da Gobbo e Gozzo. «E’ un ordine!», tagliarono
corto di fronte alle mie perplessità.
Risultato?
A Roma non gliene importava nulla dei nostri problemi. Per me l’esperienza parlamentare è stata una delusione cocente. Tanto che rifiutai la riconferma. Era molto più soddisfacente fare il sindaco: metter un palo della luce, asfaltare una strada…
Si arrese?
No, continuai la mia battaglia. A cominciare da quel “basta capannoni” che metteva l’accento sull’insostenibilità del nostro modello e sulla necessità di modificare la legge regionale. Nei 98 Comuni della provincia di Treviso si contavano 100 aree produttive. Una cosa immaginabile! Eravamo fuori giri.
Oggi la Lega sembra aver dimenticato il federalismo.
Salvini ha sicuramente dei meriti. Soprattutto sull’immigrazione, perché così non si può andare avanti. Però la scelta lepenista, questa virata a destra, non mi convince, non appartiene alla nostra storia. Io sono entrato nella Liga quasi trent’anni fa perché escludeva le ideologie e aveva un’unica idea: il federalismo. Che non è un’ideologia.
Ha pagato per quel “no” al secessionismo?
No, onestamente no. Bossi alla fine riconobbe la mia onestà intellettuale e il fatto che non facevo le mie opposizioni alla successione per motivi ideologici. E neppure per potere.
Quella di Tosi è stata invece una rottura di potere?
Tosi si è mangiato una grande opportunità, perché́ l’amico Flavio – io continuo a chiamarlo l’amico Flavio – aveva e ha grandi capacità politiche, ma si è messo in testa di realizzare un progetto molto più grande di lui. Ma soprattutto ha sbagliato a candidarsi a governatore del Veneto.
Come vede il futuro del Veneto.
Bene, fino a quando sarà governato da Zaia. Perché Luca ha le caratteristiche e le idee giuste per i veneti.
Adeguate persino a guidare il centrodestra alle elezioni nazionali?
Assolutamente sì. È pragmatico, ha la visione e la stoffa. Anche se mi risulta che non abbia, a ragione, nessuna voglia di candidarsi.
Nell’eventualità accettasse, chi vedrebbe a Palazzo Balbi?
Ce ne sono tanti, ma i candidati vengono fuori alla bisogna.
Lei quale spazio si ricava?
Io ho fatto l’amministratore pubblico per caso, cercando di dare il massimo delle mie capacità, ma sempre mettendo un limite temporale: da qua a qua.
Quindi?
Siccome credo nel ricambio democratico a tutti i livelli, non farò mai più politica.
(Oderzo, 24 ottobre 2016)